Israele Palestina, quale futuro? Quale politica di pace?

Due interviste pubblicate su Città Nuova con Giorgio Gomel, referente in Europa dell’Alliance for Middle East Peace, ong ebraico arabe e israelo-palestinesi, e di JCall, rete di ebrei europei che sostiene la soluzione di «due Stati per due popoli» per il conflitto fra Israele e Palestina e Raniero La Valle, che insieme a Michele Santoro ha proposto un’assemblea pubblica a Roma che potrebbe portare ad un nuovo movimento politico.
Dal mondo

Israele Palestina, quale futuro? Quale politica di pace?

(Fonte: www.cittanuova.it)

AP Photo/Abed Khaled

Israele Palestina, quale futuro? Intervista a Giorgio Gomel

Dialogo a tutto campo con Giorgio Gomel, referente in Europa dell’Alliance for Middle East Peace che raduna 150 ong ebraico arabe e israelo-palestinesi, ed esponente diJCall, rete di ebrei  europei che sostiene la soluzione di «due Stati per due popoli» per il conflitto fra Israele e Palestina

di Carlo Cefaloni per Città Nuova |

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Il quadrante geopolitico Mediorientale appare sempre più, con il conflitto aperto tra Hamas e governo israeliano, un buco nero di odio incontenibile che rischia di travolgere tutti e tutto.

In uno scenario così plumbeo costituisce già un motivo di speranza poter parlare con  Giorgio Gomel , voce autorevole di una rete di ebrei europei, Jcall, che è da sempre impegnata nella ricerca di una soluzione del conflitto israelo-palestinese fondata sulla formula dei “due Stati” e quindi sul riconoscimento dei diritti di entrambe i popoli presenti in Terra Santa.

Jcallè una realtà molto vivace come si può vedere nel ricco sito web accessibile in tre lingue, italiano compreso.

Di professione economista,Gomel ha diretto l’ufficio studi e relazioni internazionali della Banca d’Italia, senza tralasciare l’impegno nella propria comunità d’appartenenza e quello in campo civile. È tra i fondatori del gruppo romano “Martin Buber, ebrei per la pace”.

(L’intervista è stata rilasciata agli inizi di novembre e pubblicata in parte sul mensile di dicembre. L’originale del testo è stato aggiornato, purtroppo, con riferimento alla scomparsa dell’attivista Vivian Silver che in un primo tempo si credeva rientrasse tra le persone prese in ostaggio)

(AP Photo/Ohad Zwigenberg)

Esistono sprazzi di luce in questo buio, dottor Gomel?
Credo che come in altre occasioni di guerra aperta tra Hamas e Israele (è avvenuto nel 2008, 2009, 2014 e 2021) occorra fare lo sforzo di pensare al giorno dopo. Certo adesso si tratta di un eccidio di massa così devastante mai verificatosi sul territorio d’Israele.  Un evento traumatico che non ha precedenti nella storia del Paese fin dalla sua fondazione nel 1948 e che ha colpito gli abitanti dei kibbutz collocati vicino al confine di Gaza, persone fra le più aperte al dialogo e alla collaborazione con i vicini palestinesi.

Un volto oggi poco noto della società israeliana…
Si tratta degli eredi del sionismo socialista che ha contribuito alla fondazione del Paese. Conosco molto bene alcune delle associazioni di volontariato attive nel dialogo e lavoro comune con le realtà palestinesi. Penso ai “Medici per i diritti umani” e a “Strada verso la guarigione”, una ong attiva nel trasferire i pazienti palestinesi di Gaza verso gli ospedali israeliani attraverso il vicino valico di Erez, l’ultimo varco di transito rimasto ancora aperto tra i due territori.  Molti di loro sono tra gli ostaggi o sono stati uccisi nell’attacco di Hamas, come Vivian Silver, attivista israelo- canadese  che è stata tra le fondatrici dell’organizzazione pacifista  Women Wage Peace ( “Le donne portano la pace”).

Sono fatti estremamente dolorosi ai quali si aggiungono i morti palestinesi a migliaia dei bombardamenti su Gaza in quella che lei ha definito “un orgia di reciproca brutalità” dove si estingue la capacità di umana compassione.
L’efferatezza del terrorismo di Hamas, la violenza estrema  contro persone inermi, si associano ad un senso di impotenza e di insicurezza fisica e psicologica che impedisce a molti israeliani ogni capacità di comprensione e compassione verso i palestinesi nel loro insieme. Questi sono percepiti come nemici assoluti con i quali è impossibile interagire se non con il linguaggio delle armi.

È ciò che ha detto esplicitamente il ministro della Difesa di Israele Yoav Gallant annunciando l’assedio totale di Gaza: «Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza».
È così ma la maggior parte della popolazione non la pensa in questo modo. Paradossalmente proprio i parenti delle persone rapite sul confine con Gaza, in molte interviste si dichiarano contrarie a questa logica  nella convinzione che “violenza genera ulteriore violenza” in un dinamica senza fine.

Lei ha detto che occorre pensare al giorno dopo. Per alcuni vuol dire che bisogna prima debellare Hamas per poi riprendere il filo interrotto di possibili soluzioni…
È difficile oggettivamente debellare Hamas che ha dimostrato e continua ad esercitare un notevole capacità d’azione offensiva nonostante anni di  embargo imposto alla  Striscia di Gaza. Le forniture di missili e altre  armi sono arrivate di contrabbando dai tunnel sotterranei che partono dall’Egitto grazie ai fondi finanziari trasferiti dal Qatar. In base al numero dei corpi rinvenuti sul terreno si stima che il 7 ottobre siano stati ben 3 mila i terroristi penetrati in Israele  che hanno agito con straordinaria ferocia. Si stimano 1400 vittime tra gli israeliani, ma al momento il riconoscimento si ferma a circa  1200 persone perché sono stati dati alle fiamme le case e anche i corpi. Una folta equipe di sanitari sta compiendo una ricerca scrupolosa sui frammenti umani relativi anche ai militanti di Hamas ( forse 1.500) rimasti uccisi nell’incursione terroristica.

Una cosa spaventosa…
Io, come altri, pensiamo che, davanti a questa realtà e a tanti altri eventi tragici precedenti, sia vano per Israele pensare di affidarsi per la sicurezza alla sola repressione militare del terrorismo senza aprire uno spazio per un negoziato che permetta ai palestinesi di cogliere il vantaggio del ripudio della violenza. Si deve far di tutto per separare la società palestinese dalla seduzione del terrorismo di Hamas.

In che modo?
Nel medio periodo credo che sia necessario riprendere le trattative con l’Anp; più nell’immediato penso ad una forza internazionale di interposizione come quella presente sul confine tra Libano e Israele, magari con la partecipazione di alcuni Paesi arabi. E poi auspicare, nel lungo periodo, l’indizione delle elezioni nei territori palestinesi che non si sono più tenute dal 2006 quando Hamas vinse a Gaza espellendo manu militari l’Anp dalla Striscia.

(AP Photo/Mahmoud Illean)

Ma davanti alle migliaia di morti civili a Gaza provocati dall’intervento militare israeliano non è prevedibile invece la radicalizzazione della popolazione che si riconosce in Hamas capace di infliggere un colpo così letale ad Israele? E poi l’Anp viene in genere considerata inaffidabile perché minata dalla corruzione e considerata inerte e collusa con il governo israeliano che di fatto gestisce i territori palestinesi occupati sostenendo l’azione aggressiva dei coloni.
È vero, tanto più che in Cisgiordania ci sono manifestazioni di protesta contro Abu Mazen e di sostegno ad Hamas visto come forza di liberazione. Ma occorre vedere nei fatti se davvero i 2 milioni e mezzo di palestinesi che vivono su quei territori sono concordi nell’affidarsi ad una realtà dispotica e oppressiva come Hamas e lo stesso si può dire anche di Gaza dopo anni di sottomissione e di povertà. I sondaggi elettorali di due anni fa ponevano Hamas in vantaggio sull’Anp ma il potenziale candidato che raccoglieva più consensi era e rimane Maruan Barghouti, il leader di Al Fatah che è in carcere dal 2002 ed è considerato il Mandela palestinese. Sarebbe perciò una cosa saggia la sua liberazione.

(AP Photo/Richard Drew)

Ma questa decisione non è impossibile con il governo attuale di Netanyahu che ha come ministro per la sicurezza nazionale un estremista di destra come Itamar Ben-Gvir che proviene da un’organizzazione considerata, fino a pochi anni addietro, terrorista da molti governi occidentali, compresi gli Usa?
In questo momento in cui il Paese è sotto lo choc del 7 ottobre, il premier è inamovibile in un clima di nuova unità nazionale contro il nemico, pur dopo le oceaniche proteste dei mesi scorsi contro Netanyahu. Ma il suo destino resta incerto. Finita l’emergenza militare è prevedibile che si dimetta o venga sfiduciato dal Parlamento con il ritorno alle urne.

Si possono tuttavia aprire i più diversi scenari, anche di spostamento ulteriore a destra?
Il futuro è molto incerto. Il trauma subito potrebbe indurre, secondo alcuni osservatori, a negare per sempre il formarsi di uno stato palestinese in Cisgiordania che dista solo 50 km da Tel Aviv . Ci può essere, secondo altri, invece, un cambiamento di atteggiamento anche da parte di chi finora ha rimosso la questione palestinese ignorandone l’esistenza per arrivare alla necessità di un negoziato e alla spartizione della terra in due stati sovrani.

Ma restando fermo il punto di diritto dell’esistenza dello stato palestinese, come fa a costituirsi praticamente se non esiste più continuità in un territorio occupato da migliaia di coloni israeliani che fanno il brutto e cattivo tempo?
Nelle ultime trattative del 2014 patrocinate da Obama si era giunti ad immaginare uno scambio di territorio tra il 4/5 % della Cisgiordania confinante con Israele che avrebbe ceduto un’area vicina al deserto del Negev. Non è la stessa cosa per fertilità della terra e vicinanza con Gerusalemme. Questo consentirebbe di incorporare in Israele oltre 300.000 coloni, per lo più ultraortodossi o immigrati da Russia o Etiopia, insediati grazie ad incentivi dello Stato, che hanno costruito delle vere e proprie città. Resterebbero altri 130 mila coloni circa  sparsi per la Cisgiordania in insediamenti più piccoli e remoti che potrebbero essere indotti a spostarsi altrove in Israele. Ma molti appartengono purtroppo alla destra nazional-religiosa più militante e potrebbero opporsi con il ricorso alla violenza. È un’ipotesi ardita di soluzione ma non ne vedo altre possibili. Teniamo conto che il precedente governo Nethanyahu, nel 2020 prevedeva l’annessione ad Israele dell’area C della Cisgiordania (quella cioè dove risiedono i coloni ebrei).

(AP Photo/Ohad Zwigenberg)

È la soluzione di uno stato unico per due popoli?  È ancora  possibile dopo la dichiarazione del 2018 del parlamento che parla di Israele come nazione del popolo ebraico?
È un’ipotesi accademica improponibile oggi. Il rischio è il formarsi di  uno stato unico che nasce per annessione de iure di ciò che è già avvenuto di fatto,  con  i palestinesi privati di  diritti civili e politici sancendo una divisione tra stato ebraico e democrazia. Una situazione insostenibile di uno  stato su base etnica destinata ad esplodere in guerra civile. In alternativa uno stato binazionale  pienamente democratico e egualitario comporterebbe, invece, in prospettiva, secondo la tendenza demografica, a prefigurare una futura maggioranza di popolazione araba. Ipotesi inaccettabile per gli ebrei in Israele e in ogni parte del mondo. E’ essenziale per noi che vi sia un luogo, Israele, dove un popolo si possa riconoscere ed essere maggioritario dopo secoli di esilio e persecuzioni.

Il diritto di essere padroni del proprio destino è l’espressione dell’ideologia sionista che va oltre le distinzioni di destra o sinistra tra gli ebrei. Ma essere antisionisti vuol dire anche, come affermano in molti, essere antisemiti?
Non lo è teoricamente ma occorre considerare storicamente che il sionismo nacque come una corrente di pensiero assolutamente minoritaria nel mondo ebraico alla fine dell’Ottocento  ad opera di un ebreo occidentalizzato, l’ungherese Teodoro Herzl  al fine di fondare un inizio di insediamento ebraico in Palestina. Si scontrò con la corrente di coloro che volevano essere parte integrante degli stati nazionali europei, con i numerosi militanti ebrei del socialismo rivoluzionario attratti dall’internazionalismo proletario e convinti che così l’antisemitismo sarebbe scomparso e, infine, con l’ortodossia rabbinica che attende la venuta del Messia per ricostruire Israele.  È stata la persecuzione degli ebrei in Europa, l’avvento del nazismo e la Shoah a far percepire il sionismo come una necessità esistenziale.

Il sionismo è nato come movimento di liberazione del popolo ebraico che decide di autodeterminarsi in una nazione, e non solo come una comunità religiosa oppressa o tollerata. Per questo motivo negare questo diritto all’autodeterminazione degli ebrei, riconosciuto a tanti altri popoli, è fortemente discriminatorio e molto vicino all’antisemitismo...CONTINUA A LEGGERE


Pace e Guerra (AP Photo/Lee Jin-man) Associated Press/LaPresse

Quale politica di pace? Intervista a Raniero La Valle

Nel dibattito sempre più lacerante sulla guerra in Ucraina, che continua tragicamente a mietere vittime, si inserisce la proposta da parte di Michele Santoro e Raniero La Valle di un’assemblea pubblica a Roma per il 30 settembre che potrebbe portare ad un nuovo movimento politico. Domande a La Valle sulle ragioni di un percorso difficile che deve fare i conti con molte perplessità e obiezioni

di Carlo Cefaloni per Città Nuova |

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Michele Santoro e Raniero La Valle hanno lanciato per il 30 settembre l’invito ad un’assemblea aperta che potrebbe aprire alla formazione di una lista elettorale, già per le prossime europee, con un programma incentrato sulla politica di pace. Il testo dell’appello comincia così:  «Noi sottoscritti, amanti della pace e più ancora della vita , sgomenti per gli sviluppi incontrollati della guerra d’Ucraina e per l’istigazione da parte dei governi a perpetuarla ed estenderla, sentiamo  l’urgenza di un impegno personale e intendiamo riunirci in una pubblica Assemblea il 30 Settembre prossimo a Roma  per promuovere un’azione responsabile volta ad invertire il corso delle cose presenti, istituire la pace e ristabilire le condizioni di un sereno futuro».

La prospettiva di una lista è vista con indifferenza dal centrodestra e come fumo negli occhi tra i partiti di centro sinistra  che, tuttavia, contano sull’insuccesso di una tale formazione politica, così come già avvenuto in casi simili.

Santoro è un volto noto della televisione che suscita simpatie e antipatie ma conosce come funziona il meccanismo dell’informazione.  Ha dato vita ad una piattaforma sul web (Servizio pubblico) che collega, ad un costo contenuto, una comunità di utenti che raggiunge centinaia di migliaia di persone.

L’appello per il 30 settembre è però qualcosa di più esigente della formazione di una lista, perché vuole esprimere una visione politica complessiva,  come spiega  Raniero La Valle  che è l’estensore del manifesto di convocazione dell’assemblea.

La Valle non ha numeri di seguaci da esibire ma è portatore di una cultura che si può definire del cattolicesimo di sinistra. Direttore de Il Popolo ai tempi di Moro e poi, negli anni del Concilio, dell’Avvenire d’Italia, vivace testata della Bologna del cardinal Lercaro poi confluita nell’Avvenire della Cei,  ha lavorato con la Rai ed è stato per più legislature parlamentare della Sinistra indipendente.

A 92 anni ottimamente portati è una mente lucidissima, che continua a produrre numerosi testi di riflessione e approfondimento, presentati e discussi in tutta Italia.  Appartiene alla generazione di grandi pensatori come Franco Rodano e Claudio Napoleoni o il padre camaldolese Benedetto Calati, suoi grandi amici ormai scomparsi.

Il dialogo con Raniero La Valle non può che essere incentrato sulla guerra in Ucraina , motivo di frattura nella società e nella politica italiana.

Iniziamo parlando dell’attualità di Thomas Merton, il trappista del Kentucky scomparso nel 1968 che papa Francesco ha indicato tra gli esempi da seguire quando è andato in visita negli Usa.

Merton affermava che l’essenza del cristiano si riconosce dal suo impegno per la pace, che non può perciò essere considerato, perciò, un sovrappiù. Non le pare, invece, che, a prescindere dai sondaggi, sia ormai prevalente una cultura che considera la guerra come ineluttabile?
Si può dire che esiste questa propensione alla guerra in generale che si fa strada per sciatteria culturale e carenza di risposte adeguate, ma ho molte perplessità, in particolare, sulla reale adesione della gente a questa guerra in Ucraina.

Non è vero proprio il contrario? Questo conflitto emerso con l’aggressione russa del 24 febbraio 2022 non è l’esempio più vicino alla guerra contro il nazismo che è la guerra giusta per definizione? Chi non usa il termine di guerra giusta usa quello di guerra comunque giustificata dalla necessaria opposizione all’autocrazia di Putin definito come novello Hitler.
Credo che questa rappresentazione, che fa leva sui nostri buoni sentimenti, sia un ricatto.  Sono emblematiche le dichiarazioni rilasciate alla CNN da Biden alla vigilia del suo viaggio al vertice della Nato di Vilnius dell’11 e 12 luglio 2023, con cui ha chiarito che per il momento l’Ucraina non può entrare nella NATO perché altrimenti, in forza dell’articolo 5 del trattato dell’Alleanza, saremmo tutti in guerra con la Russia. È, infatti, una costante della politica estera Usa è quella di evitare in ogni modo il conflitto diretto con i russi. Sempre Biden afferma che l’Ucraina entrerà nella Nato alla fine della guerra con Mosca, il che equivale a dire che la guerra non finirà mai perché l’obiettivo della Russia è proprio quello della neutralizzazione dell’Ucraina come primo punto di una soluzione negoziata. Tutto ciò è noto a Biden il quale assicura che non smetterà mai di fornire le armi a Kiev così come avviene, lo dice letteralmente nell’intervista, con Israele, in uno stato di conflitto permanente: per sempre. Non è quindi un modo di dire ma l’intenzione esplicita di fare dell’Ucraina una vittima sacrificale dello scontro tra Russia e Stati Uniti che non intendono in alcun modo scontrarsi direttamente.  Gli Usa puntano ad un lento sfiancamento di Mosca senza mettere in campo un loro soldato ma riempiendo di armi gli arsenali ucraini.

Cosa vuol dire che l’Ucraina è la vittima sacrificale della guerra?
Dire, come fa Biden, “noi non facciamo la guerra direttamente, ma vi diamo le armi per condurla ad oltranza” vuol dire mettere in atto un meccanismo sacrificale così come descritto da Renè Girard. Secondo il grande antropologo francese, nello stato di natura descritto da Hobbes del “tutti contro tutti” si arriva ad un momento di crisi che egli chiama mimetica, quando tutti vogliono accaparrarsi violentemente gli stessi beni, come avvenuto tragicamente nei secoli con le guerre civili e di religione.

Un modo per uscire fuori da questo meccanismo che conduce all’autodistruzione reciproca è quello di trasformare la lotta di tutti contro tutti nella lotta di tutti contro uno, che diventa così il capro espiatorio, la vittima sacrificale. Secondo l’ideologia sacrificale il sacrificio della vittima innocente diventa così il modo per ritrovare la pace. Una vittima salvifica che viene anche esaltata e celebrata. Ed è ciò che avviene con tutte le guerre con le masse di militari e civili mandati a morire. Hiroshima e Nagasaki rientrano in tale logica sacrificale.

Ed è questo il tranello da cui occorre liberarsi per dire che non è dal sacrificio della vittima che si ottiene la pace, che il sacrificio non è affatto “utile”, così come non è stato affatto il sacrificio delle due città giapponesi che ha fatto finire la guerra.

E tale riflessione cosa ci dice della situazione in Ucraina?
Che tutti i morti ucraini, il “martoriato popolo” di cui parla papa Francesco, non solo sono innocenti ma sono tragicamente “inutili” ma usati per giustificare ulteriori carneficine e violenze. Gli Usa non rischiano lo scontro diretto ma puntano a destabilizzare la Russia con la guerra combattuta dagli ucraini con le armi occidentali. Per questo motivo il nostro compito è quello di difendere l’Ucraina nel senso di riscattarla da questa condizione di vittima sacrificale anche contro i suoi dirigenti che non lo hanno capito. Gli Stati Uniti devono comprendere che non possono garantire la loro sicurezza con questo orrore.

Tra le armi fornite ci sono le bombe a grappolo e quelle all’uranio impoverito da usare non all’esterno ma all’interno dei contesi confini ucraini…
Una sorta di condanna a morte per un territorio destinato a scontare per anni gli effetti di questi ordigni micidiali. E per questo motivo che considero negativamente la politica di Zelenzki perché per difendere un popolo non lo si può buttare allo sbaraglio in tal modo. Lo stato di guerra permanete in cui si trova l’Ucraina nasce dall’illusione di poter puntare alla vittoria contro Mosca dimenticando il fatto che nel secondo conflitto mondiale la Russia ha avuto 27 milioni di morti pur di non capitolare davanti all’avanzata nazista.

Ma non parliamo di un contesto storico completamente diverso? Ora il potere di Putin e degli autocrati che lo sostengono non è molto meno compatto dell’Urss di Stalin?
Mi sembrano considerazioni frutto di propaganda più che di realtà. La Russia non è in fase terminale. Ha sferrato il suo attacco bellico finora senza compiere bombardamenti a tappeto su Kiev. Si riportano il conteggio delle vittime di missili sulle città ucraine in termini di poche unità o decine di persone. Un crimine, certo. Ma io sono abbastanza anziano per ricordare il bombardamento dei B52 americani su San Lorenzo a Roma che distrusse il quartiere, facendo oltre 700 morti e migliaia di feriti.  Pensiamo a Napoli con oltre 20 mila morti…Evidentemente l’azione bellica russa non punta all’annientamento dell’Ucraina e all’invasione progressiva verso Occidente. Se così fosse, paradossalmente mi arruolerei anche io.

Cosa vuole la Russia quindi a suo parere?
Putin è l’autocrate che è, ma gli obiettivi che persegue sono comprensibili e ragionevoli. Chiedere che l’Ucraina non entri nella NATO è il minimo che può pretendere dopo che l’Occidente non ha rispettato tutti gli impegni presi verso Mosca di non allargarsi ad Est dopo aver ricevuto il via libera all’unificazione tedesca.

Ma si trattava di accordi verbali conclusi dagli Usa verso un impero che stava crollando e quindi non potevano considerarsi vincolanti…
Io so che i vecchi politici, nonostante tutto, si basavano sulla parola e quindi credevano alla lealtà dei patti conclusi. Se si leggono le testimonianze di quel periodo si vede che esisteva una sincerità di fondo nel non voler fare la guerra. Nella lunga intervista cinematografica fatta da Oliver Stone, Putin racconta di quanto con Clinton parlarono della possibilità dell’entrata della Russia nella Nato e della reazione negativa immediata della delegazione statunitense perché in tal modo, in assenza del nemico, la Nato non aveva motivo di restare in piedi.

E cosa doveva fare a suo parere il governo ucraino davanti all’aggressione del 24 febbraio?
Doveva cercare la trattativa e, infatti, russi e ucraini l’accordo lo avevano già raggiunto nel marzo 2022 nell’incontro di Antalia in Turchia, ma, poi, sono intervenute forti pressioni su Kiev che hanno fatto saltare tutto. Sono fatti documentati e conosciuti dalla diplomazia internazionale. Ma le condizioni per un accordo restano ancora in piedi. E non si tratterebbe di una resa ma della salvezza per l’Ucraina.

La guerra ha tanti modi per essere giustificata…
Mi ricordo che stavo in commissione Difesa all’epoca della prima guerra del Golfo e da parte degli Usa ci fu una forte promozione dell’intervento armato in Iraq giustificata dal fatto che il crollo del blocco sovietico aveva tolto di mezzo il timore della deterrenza nucleare. Il pretesto dell’invasione del Kuwait poteva essere gestito in maniera negoziale e invece prevalse l’interesse per il controllo delle fonti petrolifere.

Quanto conta l’Italia nello scenario internazionale?

Poco o niente.

Eppure non è stato decisivo il ruolo di Draghi nel ribadire il legame stretto tra atlantismo ed europeismo?
Certo sul fronte interno.  Di sicuro nel caso ucraino avremmo avuto una posizione diversa con i vecchi dc che sono sempre stati atlantisti per necessità e non per convinzione. Era una posizione obbligata da pagare da parte di una nazione sconfitta nella guerra condotta assieme a Hitler e riammessa nel contesto occidentale. Ora con la Meloni siamo giunti ad un atlantismo del cuore.

Ritiene che esista oggi una forza politica in grado di esprimere con convinzione una diversa posizione sulla guerra?
Ci sono voci isolate e divise ma non una forza politica ben definita. Di fatto esiste un popolo della pace che non ha rappresentanza politica.  A livello di opinione pubblica c’è Michele Santoro che è riuscito a lanciare una piattaforma informativa sul web (servizio pubblico) alternativa almainstreame che riesce a raggiungere un gran numero di persone: un rapporto organico che potrebbe esprimersi a livello politico come ha dimostrato l’iniziativa della “staffetta per la pace” che a maggio ha collegato circa 20 mila persone in diverse città italiane....CONTINUA A LEGGERE

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